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BDSM Italia: per una comunità che non esiste
di slaveromano71
inserito da slaveromano71 - 29/12/2017 - Letto 2003 volte.

 "Le imprese che si basano su di una tenacia interiore devono essere mute e oscure; per poco uno le dichiari o se ne glori, tutto appare fatuo, senza senso o addirittura meschino" (Da “Il Barone rampante” di Italo Calvino).


Nell’epoca del BDSM 3.0 ed in una società sempre più “fluida”, nelle definizioni e nei comportamenti sessuali, ha ancora senso reclamare l’esigenza e l’utilità di una comunità BDSM?

Elencherò tre ottime motivazioni a sostegno dell’utilità di un riconoscimento identitario, di natura collettiva, dell’insieme delle pratiche BDSM.

La prima ragione attiene al fatto che il BDSM, così come oggi lo conosciamo, riassume stili di vita e pratiche fra di loro molto diverse ma codificate, che disegnano un insieme vasto ma abbastanza omogeneo di regole e comportamenti dentro al quale le persone possono incontrarsi e riconoscersi.

L’acronimo BDSM, così come oggi lo conosciamo, infatti, ha una storia relativamente recente, nonostante le dinamiche sadomasochistiche siano radicate ed insite nei caratteri psicologici degli individui fin dalla notte dei tempi.

L’esatta coniazione del termine sembra datata fra il 1994 e il 1996 (anno nel quale l’acronimo compare esplicitamente nella rivista SM 101 di Jay Wiseman).

Ma già dieci anni prima l’attivista dell’associazione GMSMA (Gay Male S/M Activist) David Stein aveva coniato l’acronimo SSC per alludere ad un insieme di pratiche sane, sicure e consensuali. L’idea era quella di tracciare i confini entro i quali le pratiche sadomaso, all’interno della comunità gay americana, potessero essere considerate “accettabili” da tutti i membri del gruppo, sia da un punto di vista “etico”, che giuridico e sociale.

Viviamo in un’epoca dove il pluralismo nell’informazione globale (laddove c’è ed è tutelato) è illusione e spettacolo ed il messaggio mediatico tende a semplificare ed impoverire ogni contenuto, non sempre a beneficio della conoscenza. Cresce la quantità di notizie ed informazioni disponibili ma non le opportunità di accesso e di approfondimento dei contenuti.

La definizione di uno stile di vita codificato, nel quale persone che cercano relazioni consensuali sadomasochistiche possano riconoscersi, dunque, offre ai singoli maggiori possibilità di conoscenza e nuove forme di scambio e condivisione fra persone con interessi simili o analoghi, rafforzando  la sicurezza dei comportamenti e delle pratiche.

La seconda ragione risiede nel fatto che senza un riconoscimento collettivo anche lo spazio di identità individuale si affievolisce, fino a perdere forma, privato dei riferimenti culturali e sociali entro i quali può esprimersi in forme riconosciute e riconoscibili.

In un mondo in cui "o sei questo o sei quello" - o sei uguale o sei diverso, o sei maschio o sei femmina, o sei etero o sei omosessuale, o sei dom o sei sub, o sei sadico o sei maso - e che riproduce in ogni cosa una visione bipolare e binaria delle identità, dei ruoli sociali e persino della sessualità, definirsi BDSMers potrebbe sembrare un fatto assai limitante dell’identità individuale. Eppure, l’identificazione del proprio modo di essere, vivere e pensare “diversamente”, all’interno di una dimensione collettiva, ha un valore sociale altissimo.

 

Definirsi bdsmers, in definitiva, non può essere un destino che si subisce ma, piuttosto, dovrebbe essere una vita che si sceglie, a condizione che sia un modo per offrire a noi stessi l’opportunità di creare un posto nel mondo dove essere e vivere felici e non una gabbia da cui, mentre ad alcuni non è data la possibilità di entrare, ad altri non è consentito più di uscire. 

È un atto di generosità che contribuisce ad affermare un mondo più libero per tutti, educando l’opinione comune sul fatto che esistono modi di vivere la sessualità diversi da quelli maggioritari.

Ricordare che il privato è pubblico, in definitiva, è utile anche per dare coraggio agli altri, a squarciare quel velo di fobia interiorizzata verso tutto ciò che è "diverso" o non normotipizzato dai modelli imposti dalla comune opinione.

Per come la vedo io, le comunità possono rappresentare un’occasione di condivisione e di diffusione delle idee ma l’era di librofaccia e delle cinquanta sfumature, con l'inquinamento di esperienze e vissuti spesso più istintuali e non sempre consapevoli, ha reso il processo di identificazione stesso sfuggente.

In un “mondo BDSM” in cui anche i non Bdsmers hanno diritto di parola, il linguaggio ha finito per impoverirsi sempre di più e con esso l’interlocuzione stessa che ha reso sempre più confusa la visione delle cose. 

Le solitudini dei BDSMers sono reali ed una comunità potrebbe legittimamente concorrere a ridurle.

Ovviare a questa insignificanza, cercando di emancipare esclusivamente attraverso la dimensione privata, l’identità BDSM, con l’aiuto del Web nella virtualità della rete, è un grave errore strategico e relazionale.

Il web è libero e sconfinato ma è anche il luogo dove l’insignificanza dell’essere riesce a indossare la maschera dell’apparire, e dove l’esaltazione narcisistica ed egocentrica può portare alla sopravvalutazione del potere e delle libertà individuali. Senza una identificazione in una visione “collettiva”, senza il riconoscimento comunitario, senza l’empatia, senza abbandonare l’illusoria convinzione che possa esistere l’autoinvestitura di un “ruolo” a prescindere dall’altro, come un’etichetta appiccicabile addosso per editto, senza – in definitiva – “l’altro”, la portata relazionale del BDSM si annacqua, fino a perdere di senso.

In terzo luogo, come tutte le forme di sessualità non convenzionali e non tipizzate, anche il BDSM ha la necessità di un quadro normativo di opportunità e tutele all’interno del quale gli individui possano operare.

E’ evidente come in altri Paesi del mondo, infatti, ciò che da noi può apparire libero e attinente alla sfera delle libertà individuali, può essere altrettanto censurabile e sanzionabile.

Del resto, nello stesso ordinamento italiano, la “decenza” della pubblicità di alcuni atti e comportamenti di natura sessuale resta legata al “comune senso del pudore”, che evolve nel tempo assieme alle trasformazioni antropologiche e sociali del Paese.

Pensiamo per un attimo a cosa accadrebbe se fossero di colpo censurati e bollati come “materiale proibito” i contenuti relativi a pratiche sadomasochistiche presenti nei siti o nei blog della rete. Fantascienza? Forse, ma non più di tanto in un mondo globalizzato in cui il peso delle “religioni di Stato” è in costante ascesa, per effetto delle tendenze demografiche e dei processi di integrazione sociale.

Esattamente come accade ogni giorno su Librofaccia, che rimuove costantemente contenuti non conformi con le sue regole di policy, è sufficiente un’opinione pubblica avversa per spingere, improvvisamente, nella direzione della cancellazione di migliaia di notizie, articoli e  blog, community e gruppi di discussione. Migliaia e migliaia di articoli e contenuti potrebbero, d’un tratto, essere spazzati via!

Il privato, come sostenevano le attiviste femministe alla fine degli anni ’60, è politico e il riconoscimento identitario delle nostre modalità relazionali è essenziale per garantirne la possibilità di espressione, anche in senso giuridico. Con risvolti non di poco conto riguardo ai limiti e gli spazi di manovra dei sex workers e degli imprenditori che “lavorano” col mondo del bdsm (sexyshop, organizzatori di eventi e play parties ecc.).

La libertà sessuale è un bene comune ma “la diversità sessuale” è un bene intangibile che ha bisogno di una costante azione di tutela, anche qui da noi, dove la libertà individuale in materia di comportamenti sessuali non incontra, come in altri posti del mondo, limitazioni dettate da religioni di Stato ma in cui pure l’influsso della censura e la tendenza ad imporre comportamenti improntati a modelli di vita tradizionali, o orientati ad un non meglio precisato concetto di “normalità” delle relazioni sociali, si fa sentire

Vale, infatti, sempre la pena ricordare che in questo nostro Paese, circa 12 anni fa, i quattro quesiti sulla procreazione medicalmente assistita non raggiunsero il quorum.

Un anno più tardi il grido di dolore di Piergiorgio Welby si spense inascoltato e, ancora un paio di anni dopo tocco' ad Eluana Englaro farsi inconsapevole paladina della libertà di autodeterminare la propria vita. Sulla scorta della loro morte vennero presentati disegni di legge sul fine vita e sul biotestamento (che solo di recente ha trovato una disciplina compiuta nel nostro ordinamento).

E anche se le unioni civili sono legge, grazie all'Europa più che alla reale volontà del legislatore italiano, sussistono ancora gravi lacune e vincoli presenti nel testo normativo che riducono le potenzialità di riconoscimento sul piano giuridico e sociale a forme di unione e convivenza non basate su schemi tradizionali (pensiamo all’assenza di un quadro normativo che tipizzi forme di unione di fatto non basate su legami di tipo affettivo – sentimentali o, all’estremo opposto, a modalità di riconoscimento di forme di unioni affettivo – sentimentali non basate sulla coppia, ma di tipo poliamoriche o poligame).

Manca, infine, una legge sul reato di omofobia e transfobia.

Attribuiamo spesso molte delle lacune del nostro ordinamento in materia di diritti eticamente sensibili, e più nello specifico di “diritti della sessualità” al potere clericale, eppure gran parte dei limiti e delle arretratezze italiane sul tema dei diritti eticamente sensibili dipendono da quel contesto sociale e culturale, dal disinteresse civico e da quella "comune opinione" che ogni giorno contribuiamo a creare con i nostri comportamenti e le nostre parole. Dichiarare il proprio orientamento in materia di etica e di comportamenti sessuali ha un valore politico rivoluzionario. Se lo teniamo a mente forse potremo anche noi dare il nostro piccolo contributo per un mondo migliore.

                                                                                      

“Capì questo: che le associazioni rendono l'uomo più forte e mettono in risalto le doti migliori delle singole persone, e dànno la gioia che raramente s'ha restando per proprio conto, di vedere quanta gente c'è onesta e brava e capace e per cui vale la pena di volere cose buone (mentre vivendo per proprio conto capita più spesso il contrario, di vedere l'altra faccia della gente, quella per cui bisogna tener sempre la mano alla guardia della spada)” (da “Il barone rampante”, di Italo Calvino).



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