"Le imprese che si basano su di una tenacia
interiore devono essere mute e oscure; per poco uno le dichiari o se ne glori,
tutto appare fatuo, senza senso o addirittura meschino" (Da “Il Barone rampante” di Italo Calvino).
Nell’epoca del BDSM 3.0 ed in una società sempre più
“fluida”, nelle definizioni e nei comportamenti sessuali, ha ancora senso
reclamare l’esigenza e l’utilità di una comunità BDSM?
Elencherò tre ottime motivazioni a sostegno dell’utilità
di un riconoscimento identitario, di natura collettiva, dell’insieme delle
pratiche BDSM.
La prima ragione attiene al fatto che il BDSM, così
come oggi lo conosciamo, riassume stili di vita e pratiche fra di loro molto
diverse ma codificate, che disegnano un insieme vasto ma abbastanza omogeneo di
regole e comportamenti dentro al quale le persone possono incontrarsi e
riconoscersi.
L’acronimo BDSM, così come oggi lo conosciamo, infatti,
ha una storia relativamente recente, nonostante le dinamiche sadomasochistiche siano
radicate ed insite nei caratteri psicologici degli individui fin dalla notte dei
tempi.
L’esatta coniazione del termine sembra datata fra il 1994
e il 1996 (anno nel quale l’acronimo compare esplicitamente nella rivista SM 101
di Jay Wiseman).
Ma già dieci anni prima l’attivista dell’associazione GMSMA (Gay Male S/M
Activist) David
Stein aveva coniato l’acronimo SSC per alludere ad un insieme di pratiche sane,
sicure e consensuali. L’idea era quella di tracciare i confini entro i quali le
pratiche sadomaso, all’interno della comunità gay americana, potessero essere
considerate “accettabili” da tutti i membri del gruppo, sia da un punto di
vista “etico”, che giuridico e sociale.
Viviamo in
un’epoca dove il pluralismo nell’informazione globale (laddove c’è ed è
tutelato) è illusione e spettacolo ed il messaggio mediatico tende a semplificare
ed impoverire ogni contenuto, non sempre a beneficio della conoscenza. Cresce
la quantità di notizie ed informazioni disponibili ma non le opportunità di
accesso e di approfondimento dei contenuti.
La definizione di uno stile di vita
codificato, nel quale persone che cercano relazioni consensuali
sadomasochistiche possano riconoscersi, dunque, offre ai singoli maggiori possibilità
di conoscenza e nuove forme di scambio e condivisione fra persone con interessi
simili o analoghi, rafforzando la
sicurezza dei comportamenti e delle pratiche.
La seconda ragione risiede nel fatto che senza un
riconoscimento collettivo anche lo spazio di identità individuale si
affievolisce, fino a perdere forma, privato dei riferimenti culturali e sociali
entro i quali può esprimersi in forme riconosciute e riconoscibili.
In un mondo in cui "o sei questo o sei
quello" - o sei uguale o sei diverso, o sei maschio o sei femmina, o sei
etero o sei omosessuale, o sei dom o sei sub, o sei sadico o sei maso - e che
riproduce in ogni cosa una visione bipolare e binaria delle identità, dei ruoli
sociali e persino della sessualità, definirsi BDSMers potrebbe sembrare un
fatto assai limitante dell’identità individuale. Eppure, l’identificazione del
proprio modo di essere, vivere e pensare “diversamente”, all’interno di una
dimensione collettiva, ha un valore sociale altissimo.
Definirsi bdsmers, in definitiva, non può essere un
destino che si subisce ma, piuttosto, dovrebbe essere una vita che si sceglie,
a condizione che sia un modo per offrire a noi stessi l’opportunità di
creare un posto nel mondo dove essere e vivere felici e non una gabbia da cui,
mentre ad alcuni non è data la possibilità di entrare, ad altri non è
consentito più di uscire.
È un atto di generosità che contribuisce ad affermare
un mondo più libero per tutti, educando l’opinione comune sul fatto che esistono
modi di vivere la sessualità diversi da quelli maggioritari.
Ricordare che il privato è pubblico, in definitiva, è
utile anche per dare coraggio agli altri, a squarciare quel velo di fobia
interiorizzata verso tutto ciò che è "diverso" o non normotipizzato
dai modelli imposti dalla comune opinione.
Per come
la vedo io, le comunità possono rappresentare un’occasione di condivisione e di
diffusione delle idee ma l’era di librofaccia e delle cinquanta sfumature, con l'inquinamento
di esperienze e vissuti spesso più istintuali e non sempre consapevoli, ha reso
il processo di identificazione stesso sfuggente.
In un “mondo
BDSM” in cui anche i non Bdsmers hanno diritto di parola, il linguaggio ha
finito per impoverirsi sempre di più e con esso l’interlocuzione stessa che ha
reso sempre più confusa la visione delle cose.
Le solitudini dei BDSMers sono reali ed una comunità potrebbe
legittimamente concorrere a ridurle.
Ovviare a questa insignificanza, cercando di
emancipare esclusivamente attraverso la dimensione privata, l’identità BDSM,
con l’aiuto del Web nella virtualità
della rete, è un grave errore strategico e relazionale.
Il web è libero e sconfinato ma è anche il
luogo dove l’insignificanza dell’essere riesce a indossare la maschera
dell’apparire, e dove l’esaltazione narcisistica ed egocentrica può portare
alla sopravvalutazione del potere e delle libertà individuali. Senza una
identificazione in una visione “collettiva”, senza il riconoscimento
comunitario, senza l’empatia, senza abbandonare l’illusoria convinzione che
possa esistere l’autoinvestitura di un “ruolo” a prescindere dall’altro,
come un’etichetta appiccicabile addosso per editto, senza – in definitiva – “l’altro”,
la portata relazionale del BDSM si annacqua, fino a perdere di senso.
In terzo
luogo, come tutte le forme di sessualità non convenzionali e non tipizzate,
anche il BDSM ha la necessità di un quadro normativo di opportunità e tutele
all’interno del quale gli individui possano operare.
E’ evidente come in altri
Paesi del mondo, infatti, ciò che da noi può apparire libero e attinente alla sfera
delle libertà individuali, può essere altrettanto censurabile e sanzionabile.
Del resto, nello stesso
ordinamento italiano, la “decenza” della pubblicità di alcuni atti e
comportamenti di natura sessuale resta legata al “comune senso del pudore”, che
evolve nel tempo assieme alle trasformazioni antropologiche e sociali del
Paese.
Pensiamo
per un attimo a cosa accadrebbe se fossero di colpo censurati e bollati come “materiale
proibito” i contenuti relativi a pratiche sadomasochistiche presenti nei siti o
nei blog della rete. Fantascienza? Forse, ma non più di tanto in un mondo globalizzato
in cui il peso delle “religioni di Stato” è in costante ascesa, per effetto delle
tendenze demografiche e dei processi di integrazione sociale.
Esattamente come accade ogni giorno su Librofaccia, che
rimuove costantemente contenuti non conformi con le sue regole di policy, è
sufficiente un’opinione pubblica avversa per spingere, improvvisamente, nella
direzione della cancellazione di migliaia di notizie, articoli e blog, community e gruppi di discussione. Migliaia
e migliaia di articoli e contenuti potrebbero, d’un tratto, essere spazzati
via!
Il privato, come sostenevano le attiviste femministe alla
fine degli anni ’60, è politico e il riconoscimento identitario delle nostre
modalità relazionali è essenziale per garantirne la possibilità di espressione,
anche in senso giuridico. Con risvolti non di poco conto riguardo ai limiti e
gli spazi di manovra dei sex workers e degli imprenditori che “lavorano” col
mondo del bdsm (sexyshop, organizzatori di eventi e play parties ecc.).
La libertà sessuale è un
bene comune ma “la diversità sessuale” è un bene intangibile che ha bisogno di
una costante azione di tutela, anche qui da noi, dove la libertà individuale in
materia di comportamenti sessuali non incontra, come in altri posti del mondo,
limitazioni dettate da religioni di Stato ma in cui pure l’influsso della
censura e la tendenza ad imporre comportamenti improntati a modelli di vita tradizionali,
o orientati ad un non meglio precisato concetto di “normalità” delle relazioni
sociali, si fa sentire
Vale, infatti, sempre la
pena ricordare che in questo nostro Paese, circa 12 anni fa, i quattro quesiti
sulla procreazione medicalmente assistita non raggiunsero il quorum.
Un anno più tardi il grido
di dolore di Piergiorgio Welby si spense inascoltato e, ancora un paio di anni
dopo tocco' ad Eluana Englaro farsi inconsapevole paladina della libertà di
autodeterminare la propria vita. Sulla scorta della loro morte vennero
presentati disegni di legge sul fine vita e sul biotestamento (che solo di
recente ha trovato una disciplina compiuta nel nostro ordinamento).
E anche se le unioni civili sono legge, grazie all'Europa più
che alla reale volontà del legislatore italiano, sussistono ancora gravi lacune
e vincoli presenti nel testo normativo che riducono le potenzialità di
riconoscimento sul piano giuridico e sociale a forme di unione e convivenza non
basate su schemi tradizionali (pensiamo all’assenza di un quadro normativo che
tipizzi forme di unione di fatto non basate su legami di tipo affettivo –
sentimentali o, all’estremo opposto, a modalità di riconoscimento di forme di
unioni affettivo – sentimentali non basate sulla coppia, ma di tipo
poliamoriche o poligame).
Manca, infine, una legge sul reato di omofobia e transfobia.
Attribuiamo spesso molte delle lacune del nostro ordinamento
in materia di diritti eticamente sensibili, e più nello specifico di “diritti
della sessualità” al potere clericale, eppure gran parte dei limiti e delle
arretratezze italiane sul tema dei diritti eticamente sensibili dipendono da
quel contesto sociale e culturale, dal disinteresse civico e da quella
"comune opinione" che ogni giorno contribuiamo a creare con i nostri
comportamenti e le nostre parole. Dichiarare il proprio orientamento in materia
di etica e di comportamenti sessuali ha un valore politico rivoluzionario. Se lo
teniamo a mente forse potremo anche noi dare il nostro piccolo contributo per
un mondo migliore.
“Capì questo: che le associazioni rendono l'uomo più forte e mettono in risalto le doti
migliori delle singole persone, e dànno la gioia che raramente s'ha restando
per proprio conto, di vedere quanta gente c'è onesta e brava e capace e per cui
vale la pena di volere cose buone (mentre vivendo per proprio conto capita più
spesso il contrario, di vedere l'altra faccia della gente, quella per cui
bisogna tener sempre la mano alla guardia della spada)” (da “Il barone rampante”, di Italo
Calvino).